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L’età dell’eccellenza (e dei sogni da realizzare)

Un’intervista a Mauro Porcini, SVP & Chief Design Officer, PepsiCo

Mauro Porcini è un sognatore. Durante la nostra chiacchierata zoom di oltre un’ora la parola sogno – insieme a innovazione e design – ricorre molto spesso. Tuttavia Mauro Porcini è anche persona pragmatica e con i piedi per terra, altrimenti non sarebbe arrivata a ricoprire il ruolo attuale di Senior Vice President & Chief Design Officer in PepsiCo. Il suo percorso professionale e personale viene raccontato con dovizia di particolari all’interno delle oltre 500 pagine di “L’età dell’eccellenza – Innovazione e creatività per costruire un mondo migliore” – il suo libro uscito poche settimane fa per i tipi de Il Saggiatore – a partire dalla sua adolescenza a Gallarate, i suoi studi al Politecnico di Milano, l’incontro bizzarro con Claudio Cecchetto e poi la sua carriera in 3M, prima in Italia poi negli Stati Uniti. Ma in queste pagine ci sono soprattutto pensieri e riflessioni su design e marketing, innovazione e business, Italia e umanesimo.
Tutto parte dal titolo, emblematico e diretto.
«Siamo nell’età dell’eccellenza perché oggi chiunque può inventarsi un prodotto, un servizio, la soluzione ad un bisogno umano, e competere con le multinazionali. Le barriere erette a protezione delle grandi aziende iniziano a sgretolarsi, sotto la forza di una serie di tendenze come globalizzazione, nuove tecnologie, e-commerce, social media. L’accesso ai capitali è più facile grazie al crowdfunding, i costi della produzione si abbassano, la grande distribuzione può essere aggirata, e i social favoriscono la comunicazione. Vince solo chi eccellerà, al di là delle dimensioni».

Tra questi strumenti abilitativi che hanno abbattuto le barriere quale è stata davvero cruciale e perché?
Se vogliamo mettere una gerarchia, forse al primo posto vanno i social media e poi l’e-commerce: una volta che porti l’idea e il significato del prodotto alle persone, poi il modo per farlo acquistare si trova. Quindi al secondo ci metterei l’e-commerce. Poi le nuove tecnologie che ti danno la possibilità di abbassare i costi, e i finanziamenti più accessibili, come il crowdfunding.

Chissà quante volte le avranno detto “è facile per te parlare dagli Stati Uniti..”
Moltissime. La realtà però è che spesso in giro per il mondo, ci sono idee innovative che hanno successo attraverso il brand e la comunicazione che si riesce a generare. In America, in Cina, ma anche nei Paesi Arabi oggi si respira quel clima del “tutto è possibile, si può ripartire” e in Italia questo si è un po’ perso. Proprio ieri registravo un videomessaggio per il Consolato Italiano qui in America che verrà lanciato in occasione del 2 giugno e il mio discorso verteva su tutta una serie di analogie potenziali con il dopoguerra: grande crisi globale, accelerazione di tecnologie per far fronte alla crisi, a cui poi è seguito, almeno in Italia, il boom economico. Allora l’obiettivo per le aziende era local, quindi avere successo sul mercato interno per poter ricostruire l’Italia. Chissà se oggi una pandemia non aiuti l’Italia a risollevarsi, questa volta con una logica più globale e strategica. Il mio è più un augurio e un auspicio.

La sua idea di mercato prossimo venturo è una sorta di competizione darwiniana per la sopravvivenza: dove solo i brand e i prodotti migliori sopravviveranno. Però in questi ultimi anni, ben prima della pandemia, noi stiamo vivendo un momento di profonda crisi e recessione e per questo tutti si concentrano sui risultati a breve periodo. Come si concilia questo con la sua visione?
Io voglio continuare a credere alla teoria darwiniana dei prodotti migliori che vinceranno, perché lo vedo accadere. Il punto è se questi prodotti arriveranno dall’Italia o da altri paesi. Le grandi conversazioni di questi tempi sulla sostenibilità, sull’health & wellness, sulla personalizzazione rappresentano per le aziende delle aree di debolezza e stanno arrivando dei prodotti che fanno leva su queste debolezze per riuscire ad erodere market share. Quindi o si cerca di creare prodotti che oltre ad avere caratteristiche di branding, formulazioni di prodotto abbiano anche quelle caratteristiche che oggi non hanno, altrimenti lo faranno altri.

Però il tema della sostenibilità è un problema serio, non lo spunto per aumentare la market share…
Sono d’accordo. Però qui ora stiamo parlando di prodotti e di innovazione e questi temi sono così importanti che passano anche attraverso i prodotti da realizzare. Oggi tutte le aziende stanno cercando i bisogni, i sogni e le frustrazioni delle persone e, appena ne individuano una, se possono, cercando di entrarci. Prima le multinazionali non lo facevano perché magari avevano una serie di vincoli, ad esempio in termini di costi, oggi invece le nuove realtà più piccole e snelle non sono costretti dai margini imposti da Wall Street e da altre limitazioni. È la storia di Uber – ma anche di Airbnb – che ha aggirato le costrizioni dei taxi e del trasporto pubblico, giocando con nuove regole.

Gli organi di controllo quindi in questo caso come devono agire?
La risposta in questo caso non è uccidere l’innovazione che crea vantaggio per l’utente finale, ma piuttosto aiutare le categorie disagiate nella transizione ma favorire l’innovazione che è positiva per la società.
In generale quindi, tornando al discorso iniziale, i prodotti migliori vinceranno perché se non la fai tu lo farà qualche altro competitor, perché oggi ci sono i mezzi per farlo in modo rapido.

Quali sono i settori che oggi hanno bisogno d’innovazione, secondo lei?
Ad esempio il trasporto aereo, che oggi è un disastro. Ci hanno provato le low cost circa vent’anni fa a risolvere le cose in un determinato modo, poi hanno avuto difficoltà anche loro.

Lei scrive che “I modelli di marketing tradizionali applicati al brand building sono essenzialmente morti”. Sa che qui invece vivacchiano ancora?
Ovviamente l’aver usato il termine morti è una provocazione. Sicuramente è un passaggio dove in alcune nazioni è più accelerato rispetto ad altri, dove quindi si cerca di creare esperienze con le persone, trascendendo il messaggio top-down televisivo o su altri canali.
Se un’azienda ha un obiettivo di breve termine su un target ben definito di baby boomer, allora può ancora pianificare in tv, però sappia che è un modello destinato a sparire per essere rimpiazzato da uno più esperenziale dove c’è un connubio tra comunicazione creata dai brand e una comunicazione che parta dalla vita delle persone. L’experience branding significa parlare alle persone creando esperienze che in quel momento che siano rilevanti per loro usando ogni touch point del brand come un potenziale canale di comunicazione: quindi anche il packaging, quello che succede nel percorso di quando tornerai allo stadio a vedere la partita di calcio, sono tutte potenziali esperienze che le aziende non utilizzano al meglio non solo per raccontare una storia, ma per attivare una storia potenziale che verrà raccontata dalle persone.

L’altra sua tesi del libro è che l’innovazione è design-driven. Il suo obiettivo è quello di “riposizionare la comunità del design nell’universo del business”. Certe consuetudini all’interno delle aziende sono difficili da scardinare: come pensa di riuscirci e con quale il percorso da intraprendere?
Io penso che l’Italia sia naturalmente design driven. Perché c’è un paradosso che spiego anche nel libro. Se studidesign al Politecnico di Milano – dove ho studiato anch’io – vieni formato a pensare come un innovatore. Leonardo Da Vinci era il prototipo dei designer ideale, poteva fare dipinti pazzeschi e progettare macchine volanti. Quelle macchine peraltro, se legge la bella biografia di Leonardo scritta da Walter Isaacson, non erano veramente funzionanti, però c’era l’idea e una comprensione finale di come davvero avrebbero dovute funzionare. Il designer sono educati un po’ allo stesso modo, studiano fisica, matematica, scienza, tecnologia, marketing, scienze umane e quindi hanno un’infarinatura di tutte le dimensioni e riescono a gestire tutti questi ingredienti per creare innovazione. Poi escono dal Politecnico e vengono incasellate nel settore dell’estetica e funzionalità o dello stilista. Quindi per rispondere alla sua domanda, ci vuole qualche imprenditore visionario o executive di qualche azienda che offra l’opportunità al profilo giusto ed eventualmente a un piccolo team di iniziare a generare un modo nuovo di fare innovazione.

E a lei chi le offri questa occasione?
Fu 3M Italia che mi assunse quando avevo 27 anni per cercare di cambiare la cultura all’interno dell’azienda. Fu una mossa un po’ azzardata, e forse non ci credevano più di tanto. PepsiCo lo ha fatto in modo più evoluto, assumendomi in una posizione più elevata: per le sue dimensioni l’azienda si è mossa in modo cauto, perché sono partito con un piccolo team, mentre oggi abbiamo 15 design center in giro per il mondo con centinaia di persone che ci lavorano

Tornando al design. Ho come l’impressione che il suo concetto di design prenda parte di quello che era il marketing, sopratutto nella fase di ascolto dei sogni e dei bisogni delle persone e che forse il marketing oggi fa sempre meno, più concentrata verso il branding. Mi sbaglio?
È interessante che mi domadi questo. Immagino che il suo background non sia di design.

No, infatti. Economia e marketing.
Perché è un commento che mi arriva spesso dalla comunità del business. In realtà quando studi design ti insegnano che l’ascolto, ovvero l’etnografia e il design research, sono il core del ruolo del designer. Poi uno arriva nelle aziende e si rende conto che quel ruolo è già occupato dal marketer. Tuttavia c’è un presupposto culturale fondamentalmente diverso: la comunità dei design è educata a creare innovazione che migliori la vita delle persone e l’idea di studiare il modo di come far soldi con quelle innovazioni è un’idea più recente, introdotta vent’anni fa. Ma il designer purista è quello che non vorrebbe neanche vendere le sue creazioni. La comunità di business invece parte dall’idea di capire le persone per vendere e far soldi. Quindi i presupposti sono diversi, poi si incontrano al centro. Per questo oggi più che mai il mondo ha bisogno del design come lo intendo io, quello che prende spunto dal Rinascimento e dall’Umanesimo, per due motivi: il primo è di tipo etico-morale, per dire basta a questi prodotti mediocri e a soluzioni che fanno male al pianeta. È importante avere l’etica dell’innovazione. E poi c’è anche una ragione di business, è importante innovare per primi in questo senso, altrimenti c’è qualcun’altro che lo farà al posto tuo. In questo senso il valore etico si sposa sempre più con il valore di business.

Io lavoro con le parole e trovo etico il fatto che lei non usi la parola consumatore, ma parli di persone, cittadini, utenti.
Sì, anch’io ho una idiosincrasia verso quel termine. Siamo esseri umani, non esseri consumatori. Catalogare l’essere umano come un essere che consuma invia un messaggio diametralmente opposto a ogni innovatore, progettista, ricercatore e marketer del mondo. Mi ha sempre affascinato il retailer americano Target che chiama i propri clienti guest, ovvero ospiti.

Parliamo dell’Italia. Perché lei ha voluto scrivere questo libro in italiano ed è sempre molto legato al suo paese, lo si capisce a ogni riga del libro.
In un’intervista lei racconta di trasformare il classico “Made in Italy” in “Designed in Italy”: al di là della semantica, cosa cambierebbe? Ma ad esempio nella moda sartoriale, nelle confezioni, negli accessori di alto livello non è proprio la produzione manufatturiera quella che fa la differenza e che ci viene riconosciuta?
Il Made in Italy ha senso oggi e avrà senso in futuro e quindi va protetto. Quello che mi dà fastidio è sentire continuamente parlare di ripresa economica del paese e associarla solo al Made in Italy. Per me è una visione vecchia: noi abbiamo eccellenze produttive in determinate categorie e industrie e poi abbiamo anche una filiera che cerchiamo di proteggere – e talvolta la proteggiamo anche quando ormai è totalmente obsoleta. Bisogna pensare però che un certo tipo di eccellenza oggi è replicabile anche in Cina. Perché in Toscana magari vengono usati tanti sarti cinesi per realizzare certi fantastici prodotti del Made in Italy, e poi questi tornano in Cina e riescono a replicarli perfettamente. Spesso non si racconta, ma molto MII non è fatto in Italia. Quindi il mio primo punto è che tra tutte le leve competitive potenziali che abbiamo in Italia, il MII non è la più forte. Magari 50 anni fa noi avevamo delle skills che gli altri non avevano, oggi ni. Ho molti esempi di brand della moda italiana che per grandi catene americane producono fuori dall’Italia a un decimo del costo e con la stessa qualità.
C’è invece quello che chiamo il Brand Culturale Italiano che è un insieme di cose, dalla creatività alla tradizione culinaria al nostro stile di vita che conosciamo benissimo ma che non valorizziamo mai. E questo non può essere tolto dal nessuno. Quindi il mio punto del “Designed In Italy” è possiamo creare dei brand, dei sogni che fanno leva sul nostro senso della vita e dello stile, un operazione non solo estetica, ma anche culturale. Poi oh, se vuoi produrlo in Cina o altrove, va bene, l’importante è che l’HQ sia in Italia dove sviluppi la strategia.

Facciamo degli esempi concerti.
Certo. Di altri paesi, paesi. Nel mondo del mobile, nostro orgoglio nazionale, il più grande produttore al mondo è svedese e nell’abbigliamento il più grande è spagnolo (Inditex con Zara e gli altri marchi). Ikea non ha avuto l’idea del Made in Sweden per rilanciare il paese: ovviamente hanno iniziato a produrre in Svezia, ma poi l’idea di quelle aziende è quello di creare un vantaggio competitivo difendibile e globale basato su un certo tipo di approccio, che nel caso di Ikea (o Inditex) era basato sul low cost manufacturing, e peraltro non è che la Svezia e la Spagna fossero conosciuti per quell’approccio.
Invece noi abbiamo un vantaggio competitivo da sfruttare, ma anche delle debolezze come l’incapacità di fare sistema e rispettare altre culture, senza pensare di essere i migliori, anche perché poi i francesi e i cinesi ci comprano e noi ci lamentiamo….

Se Draghi la chiamasse come consulente su come spendere i soldi del Recovery Fund, lei quali consigli gli darebbe per quanto riguarda gli investimenti in area business?
Le risponderò in due modi. Io in 3M ho lavorato davvero in ogni industria, dall’aerospaziale al consumer. A volte di questi mercati non sapevo quasi niente e ho imparato ad approcciarle con molta umiltà studiando i dati di mercato, quindi finché non ho le informazioni reali dell’industria e di cosa si può fare, devo sospendere il giudizio. Quindi la mia prima risposta è non ho abbastanza dati per esprime un’opinione. La seconda risposta è invece più generica ed è quella di far leva su due vantaggi competitivi: quella del Brand Culturale Italiano di cui parlavo prima , mentre l’altro deve essere un vantaggio competitivo chiaro, identificato e difendibile, meglio se tecnologico. In PepsiCo usiamo tanta tecnologia italiana per il funzionamento di alcune piattaforme.

Ultima domanda: dopo i ruoli di prestigio ricoperti in società come 3M e PepsiCo, quale vede all’orizzonte come possibile realtà che possa farli continuare un percorso di riflessione su design e innovazione?
Mi fanno spesso questa domanda e io sono solito rispondere alla stesso modo: dove mi condurranno i sogni, ovvero chiunque mi darà la possibilità di continuare a sognare: questo significa avere a disposizione una piattaforma per realizzare quei sogni e trasformarli in realtà. Fino ad oggi le multinazionali mi hanno dato questa possibilità sia di sognare ma anche portare quei sogni a centinaia di milioni di persone ed è qualcosa di bello. Senza i sogni io mi sentirei perso.

Michele Boroni

Il Libro