Una testata seppur neonata come Lead & Read con l’obiettivo di segnalare i saggi che ci fanno riflettere sulle mutazioni in atto, non poteva non considerare un libro come “The Game” di Alessandro Baricco seppur uscito qualche mese fa.

Di questa sorta di sequel ideale de “I barbari” (saggio antropologico sulla mutazione scritto nel 2006) se ne è già ampiamente discusso in rete, anche con successive appendici dell’autore, creando i consueti schieramenti polarizzati pro e contro Baricco; quindi proviamo a sintetizzare qui il nostro giudizio sul libro per poi approfondire un tema che, secondo noi, risulta centrale nell’ultima fatica dello scrittore-divulgatore torinese.
Diciamolo subito. “The Game” è un libro da leggere, qualunque sia il vostro grado di cultura digitale o di interesse sull’argomento, perché spiega in modo semplice, seppur con qualche semplificazione qua e là, la mutazione tecnologica e sociale (ed economica, antropologica, politica, etc..) degli ultimi tre-quattro decenni. Una volta digerito il birignao baricchiano, qui particolarmente presente, si possono apprezzare alcune brillanti e illuminanti intuizioni. Innanzitutto, il punto di vista: secondo Baricco non è la tecnologia ad aver cambiato l’uomo ma è quest’ultimo che ha costruito nuovi strumenti che gli permettessero di evolversi ulteriormente. Questo tentativo di rovesciamento logico tra causa ed effetto non è banale: Baricco sostiene che una rivoluzione mentale abbia quindi modificato la tecnologia per accordarla a una visione del mondo. Questo punto di partenza gli permette di non schierarsi né tra gli apocalittici né tra gli integrati e neo-positivisti nei confronti del futuro tecnologico prossimo venturo.
Qui Baricco infatti si pone come filosofo, indicando una strada percorribile per il mondo intellettuale umanista, che da qualche anno non sa più dove battere la testa. Baricco dopo aver sintetizzato con la parola Game tutta la rivoluzione digitale (il web, il digitale, gli smartphone, i social etc..) afferma “Non è il Game che deve tornare all’umanesimo. E’ l’umanesimo che deve colmare un ritardo e raggiungere il Game”. Questo significa molte cose, tra cui provare a mettere per un attimo in secondo piano la dimensione dell’ideologia e dei valori, concentrandoci sugli strumenti, abbracciare narrazioni più fluide, distribuire il più possibile il potere e, soprattutto, fare una riflessione sulle interfacce ludiche che mutano totalmente il modo di imparare.
Questo ci sembra il cuore del libro rispetto a una seconda parte dove un po’ si perde in una fotografia politica che, letta oggi dopo solo quattro mesi dall’uscita del libro, risulta già vecchia e obsoleta, e forse limita a una lettura tutta italiana di un testo che invece avrebbe le carte e l’ambizione per un’audience globale.
Ma torniamo al punto centrale e proviamo ad entrarci dentro.
Attraverso lo schema mentale dei videogiochi dell’uomo-tastiera-schermo (originale triade che è l’ennesima evoluzione partita da quell’uomo-spada-cavallo del Medioevo), Baricco riesce a spiegare la rivoluzione digitale globale innescata dai tecnici e dagli ingegneri.
A pagina 148 del libro, il fondatore di Scuola Holden riesce con una sintesi frutto di una profonda osservazione analitica, a “identificare i tratti genetici di quella specie destinata a sopravvivere”. La riportiamo qui puntualmente.
- design piacevole capace di generare soddisfazioni sensoriali
- una struttura riconducibile allo schema elementare problema/soluzione ripetuto più volte (ndr: all’infinito)
- tempi brevi tra qualsiasi problema e la sua soluzione
- aumento progressivo delle difficoltà di gioco
- inesistenza e inutilità dell’immobilità
- apprendimento dato del gioco e non dallo studio di astratte istruzioni per l’uso
- fruibilità immediata, senza preamboli
- rassicurante esibizione di un punteggio ogni tot passaggi
Leggete e rileggete queste caratteristiche. Poi provate a prendere i casi di successo di questi ultimi anni, di qualsiasi genere e categoria, dal commercio al tempo libero, dalla comunicazione alla politica, e vedrete che soddisfano più di uno di questi tratti caratteristici.
Ma già nel nostro tenere separate le categorie commettiamo probabilmente un errore. L’altra bella intuizione di Baricco infatti è quando dice che, l’unica quantità presente sui mercati nell’era del Game è il TUTTO, ovvero la caratteristica strutturale, e non solo economica, del procedere digitale: Amazon ha senso perché vende tutti i libri e Google ha un senso perché sonda tutto il web. Baricco scrive “non perdere tempo a mettere a punto cose che possano avere un grande sviluppo; piuttosto cerca di inventare cose il cui sviluppo è infinito perché sono state pensate per contenere TUTTO”. Una bella presa di posizione nei confronti dei manager ossessionati unicamente dalla scalabilità.
Ma torniamo ai tratti genetici.
E’ lo stesso Baricco a dire, in seguito “se state facendo qualcosa che non ha almeno metà di queste caratteristiche state facendo qualcosa che è già morto da tempo”. Il gioco relazionale con un punteggio esibito o comunque una dimensione misurabile, la componente di entertainment, le soluzioni veloci, la fruibilità immediata, il design semplice sono tutte quelle logiche che oggi sono applicate in gran parte delle cose nuove che troviamo intorno a noi.
E poi c’è il tema del gioco, che però non è certo nuovo. Si parla di gamification, ovvero l’applicazione di meccaniche di gioco a contesti che con il gioco hanno poco o niente a che fare, già da molti anni. Fissare obiettivi, determinare missioni e definire ricompense permettono di intraprendere delle azioni seppur percepite come noiose, con una maggiore motivazione.
Ma Baricco racconta le interfacce ludiche come quegli strumenti che ci permettono di imparare facendo. Giocando e non studiando.
Mi ha fatto venire in mente quel delizioso piccolo saggio di Franco Bolelli di qualche anno fa dal titolo “Giocate!” (add editore, 80 pagine, 5,40€) in cui il filosofo pop milanese racconta attraverso Undici Comandamenti il giocare come attitudine verso la vita intera, modello mentale e comportamentale che rafforza la nostra visione e relazione con il mondo. Qui stiamo su un altro piano, non c’è tecnologia, non ci sono interfacce, c’è solo un approccio appassionato, vitale e responsabile alla vita.

“Giocate!” è un libro che dietro la facciata di un libro sui bambini che crescono e su cosa gli adulti sono chiamati a fare, è un testo che parla di approccio ad affrontare la contemporaneità, l’evoluzione e il cambiamento (che sono insite nel bambino, in effetti) le cui regole e comandamenti possono però essere applicati in qualsiasi contesto, in un progetto, un’azienda o un’innovazione. Anche perché secondo Bolelli l’innovazione non ha a che fare solo con la tecnologia o con le avanguardie strambe, ma l’innovazione è “la naturale manifestazione di un organismo sano”, e il gioco diventa così un ottimo approccio esistenziale e vitale.
E questa è la parte bella e nobile del gioco. Ma c’è anche altro. Purtroppo.
Torniamo per un attimo al Game di Baricco. A un certo punto lo scrittore torinese racconta di come il movimento sia fondamentale nella frenesia ludica e digitale. “Scegliere sempre il movimento, saltare passaggi eludendo così le mediazioni, non avere paura delle macchine e fidarsi della postura uomo-tastiera-schermo” scrive. E’ evidente che questo sia un totale capovolgimento di paradigma, non sappiamo ancora se peggiore o migliore, rispetto al passato: un passato in cui alla base c’era la conoscenza profonda per capire e scegliere meglio, rallentare per conoscere, distillare per assaporare la qualità. Tutto oggi quindi viene capovolto e, insieme a questo, la disintermediazione diventa sempre più presente e pressante non solo nel commercio e nell’intrattenimento, ma anche nella politica e nella vita civile.

Lo spiega bene un libro uscito negli ultimi mesi – “Ludocrazia. Quando il gioco accorcia le distanze tra governi e cittadini” di Gianluca Sgueo (Egea Edizioni, 184 pagine, 16€) – una lucida analisi su come imprese e istituzioni stiano cercando di guadagnarsi l’attenzione di clienti, dipendenti e cittadini attraverso un meccanismo che prevede delle ricompense basate su un sistema di punti. La piattaforma digitale Rousseau del MoVimento 5 Stelle ha in sé tutte quelle caratteristiche ludiche di cui parlavamo sopra, anche il concorso “Vinci Salvini” nella campagna delle Politiche 2018 per cui se si mettevano like ai post del leader del Carroccio si potevano vincere selfie, telefonate e cene con il “Capitano”, vanno in questa direzione. Ma anche grosse aziende come Edison, Wind, Fastweb stanno implementando progetti di gamification per il risparmio energetico e per coinvolgere i propri clienti e prospect. Per non parlare dei musei più innovativi che per tenere alta l’attenzione del pubblico inseriscono dinamiche di gaming per attrarre e coinvolgere.
Niente di male, in realtà. Tuttavia Gianluca Sgueo mette in evidenza le problematiche che si porta dietro la gamification: omologazione, costruzione del consenso su dimensione artificiali e quello che, citando il professor di Harvard Cass Sunstein, chiama “ignoranza pluralistica”. Ad esempio, in Cina il governo valuta il comportamento sociale dei cittadini in base ad un punteggio, chiamato social credit score. Questo è il lato oscuro della gamification: cioè che chi ha un punteggio basso rischia di non aver accesso all’ospedale o non avere il visto sul passaporto.
Do you wanna play the game?
Michele Boroni