Intervista a Bruno Mastroianni, autore dell’umana “Storia sentimentale del telefono”
“Continuiamo a chiamare telefono ciò che telefono non è più”, ci tiene a specificare subito Bruno Mastroianni. Perché l’oggetto che nasce con Meucci potenziava le connessioni tra persone e alimentava la speranza degli incontri impossibili. Lo smartphone, invece, ci immerge in una dimensione inedita e fa nascere nuovi modi di interagire, di relazionarsi, di usare le parole.
Bruno Mastroianni è giornalista e filosofo, si può dire che per deformazione professionale si ponga molte domande. Una fra tante: quanto e come siamo cambiati in questi anni con un telefono fra le mani? E cosa è accaduto quando il telefono è diventato intelligente?
Nel suo libro Storia sentimentale del telefono, edito da Il Saggiatore, non solo ci offre uno spaccato di vita vissuta dal genere umano, ma pure un nuovo modo per – tornare a – sentirci umani, senza cadere nella trappola della nostalgia.
(Ri)accorciare le distanze
Il telettrofono, antenato del telefono, nasce per amore, nel 1871. Antonio Meucci lo brevetta per rimanere in contatto con sua moglie malata. Lui lavorava in ufficio, lei era a letto. Quella di portare la voce a distanza, spiega l’autore, è ormai una funzione minima e residuale di quell’oggetto che abbiamo in tasca e che ci connette con il mondo.
Oggetto per cui nutriamo amore e odio. “Lo smartphone ci aiuta, senza di esso faremmo una vita terribile – ride Mastroianni – ma al tempo stesso lo odiamo, perché ci mette in difficoltà. Richiede molta più attenzione verso le modalità e i contesti che usiamo per dare senso all’interazione.”
Spesso sbagliamo proprio nella scelta del contesto: facciamo a voce ciò che andrebbe fatto via email, deleghiamo a un messaggio vocale ciò che invece dovrebbe essere una telefonata, senza alcuna possibilità di replica o interruzioni per l’interlocutore. Interazioni possibili solo durante una comunicazione che avviene in sincronia, con buona pace di tutti i partecipanti; interazioni che difficilmente potranno essere superate, perché nel nostro DNA. E parte costitutiva di quella romantica invenzione di Meucci.
L’intimità è ancora un numero di telefono
È vero, il telefono non è più un telefono, ma la soglia dell’intimità è ancora legata alla sua funzione primordiale. Abbiamo potenziato enormemente la nostra capacità di comunicazione con chat, social media, app di dating; eppure, è ancora lo scambio del numero di telefono a segnare un passaggio cruciale.
Perché?
“Ci sono diversi studi che mostrano come abbiamo trasferito parte della nostra intimità nelle piattaforme digitali, e non l’abbiamo fatto in parti eque, alla stessa maniera. Il like ricevuto sotto un post o una chat all’interno di una piattaforma social sono sì, segno di interesse, ma avvengono in un territorio non del tutto privato, paragonabili quasi a una chiacchierata in un bar.
Il momento più intimo, quello che socialmente si può considerare un salto di qualità, è lo scambio del numero di telefono, che permette di scriversi su WhatsApp o addirittura chiamarsi. Poi esistono forme di relazione che rimangono puramente digitali, quando l’interazione è così perfetta che il terrore di rimanere delusi con un incontro dal vivo non permette un’evoluzione. Ma eliminare l’interazione dal vivo non apre all’incontro pieno.
Lo scambio del numero rappresenta dunque un salto di qualità che si fa in due, il modo naturale che porta a conoscersi anche nella terza dimensione. È la compresenza che conferisce all’incontro la sensorialità che completa e dona bellezza: è il modo in cui l’altro si muove nello spazio, il suo odore, il volume della voce. Aspetti che il digitale non può sostituire e che ci permettono di capire quanto il nostro rapporto con la tecnologia non sia intellettuale ma emotivo. Nella tecnologia trasferiamo parte del nostro cuore, dei nostri sogni, delle nostre aspettative.
E questo ci riconcilia con quell’idea terrorizzante della tecnologia come dimensione a sé in cui l’uomo rimane intrappolato. La tecnologia, invece, è qualcosa di umano. Proprio di questo ho parlato nel mio libro: di interazione tra essere umano e dispositivo, essere umano e piattaforme, essere umano e buone o cattive abitudini digitali.”
In che modo lo smartphone ha cambiato il nostro modo di relazionarci?
“È bello riflettere su questo a partire dalle parole, dalle frasi di cortesia con cui rispondiamo alle chiamate.
Quando il telefono era solo fisso, il pronto aveva una funzione molto specifica: avvertire i centralini che la linea era stata agganciata. Poi il telefono arrivò in tutte le case e quella formula iniziale ha cominciato a prendere una sfumatura diversa: ci metteva in ascolto di una voce sconosciuta, ci aiutava a capire se la conversazione sarebbe stata informale o meno.
Questo istante cambia già con i primi cellulari. La domanda che si fa è dove sei?, per nulla scontata: potevamo conoscere il mittente, ma non sapere dove fosse in quel momento. Con lo smartphone, ci immergiamo in una giungla di notifiche, in cui il tempo è veloce e concentrato. La nostra espressività oggi è quella del puoi parlare?,
si mette in dubbio la possibilità stessa di fare la telefonata.
L’apoteosi arriva quando è necessario annunciare la chiamata, con messaggi multipiattaforma e formule come tra poco ti chiamo, ti sto cercando, ora ti chiamo, trasformando il tutto in una iper telefonata.
Prima che avvenga la chiamata, sappiamo tutto: chi ci sta cercando, perché, da dove chiama e cosa ci dirà. E quando a chiamare è un numero sconosciuto, oggi, lo temiamo.”
Con un po’ di nostalgia buona, come la chiama Bruno, ci ricordiamo della bellezza di quel pronto in cui poteva succedere di tutto all’altro capo della linea. Poteva esserci la nonna, con cui avresti fatto una conversazione informale e dolce, oppure uno sconosciuto, con cui dovevi cavartela e parlare bene per passargli la mamma o il papà.
“Dobbiamo provare a portare un po’ di quella meraviglia nelle conversazioni, ad aspettarci l’inaspettato in questa ipercomunicazione che ci ha abituati al timore e che, di conseguenza, qualche volta evitiamo. Non dobbiamo temere la comunicazione dell’altra persona, ma allenarci ad accoglierla.”
Pratiche umane dell’iperconnessione
“Tutto spinge al sovraccarico. Troppe notifiche, troppe interazioni rispetto a quelle che possiamo gestire e a quelle a cui possiamo o vogliamo dare un significato. Sì, lo scenario è avverso e il rischio è che lo smartphone diventi il capro espiatorio di tante colpe, che invece sono molto più umane. Essere connessi è necessario per lavorare, per vivere, per intessere relazioni. Non possiamo evitarlo. Sta all’essere umano praticare un nuovo sport estremo: riuscire a dare peso alle notifiche.”
Come? Innanzitutto, mettendo le persone al centro, e non le piattaforme. Per nervosismo e sovraccarico preferiamo affidarci alle scorciatoie, e invece dobbiamo fare fatica per metterci in relazione.
“Di fronte alla connessione costante c’è ancora più bisogno di umanità, della consapevolezza dei propri limiti e dei limiti degli altri. Nel limite, ci incontriamo. Chi pensa di non averne, farà costantemente invasione di campo altrui; l’illusione di superare questi limiti distrugge le relazioni e ci rende frustrati. Al contrario, accettarli e metterli a nudo di fronte agli altri, migliora la comunicazione.”
E a proposito di tempo. Lo smartphone, e prima ancora il telefono, ne hanno modificato la nostra percezione.
“Comunichiamo spesso con dei tempi sbagliati. Prima di inviare un messaggio potremmo prenderci quei 15 secondi in più per rileggere; gli strumenti ce lo permettono, eppure non lo facciamo. La tecnologia può ridefinire tempi e modi, ma l’essere umano no, ha dei tempi da rispettare: per ascoltare, capire, far sedimentare le conversazioni. Allora ecco che il problema è umano, non tecnologico. Siamo noi che proiettiamo una frenesia.”
Un tempo i tempi erano dettati dai limiti del mezzo stesso. Quando le possibilità di comunicazione erano scarse, quei limiti ci aiutavano. La tecnologia digitale ci ha illuso di non avere più limiti e di poter abbattere i tempi, che invece non sono eliminabili.
“I tempi dobbiamo impostarli noi. Certe comunicazioni hanno bisogno di risposta immediata, altre vanno delegate a contesti digitali che richiedono una maggiore riflessione. I tempi e i limiti si sono spostati dal mezzo alle nostre decisioni. E a questo non eravamo preparati.”
In una relazione complicata con la tecnologia.
Non è vero quindi che il digitale è il luogo della velocità, siamo noi ad aver creato questa illusione. Tecnicamente, il digitale è il luogo della riflessione. È il luogo in cui possiamo recuperare contenuti, rileggere articoli, riascoltare dialoghi o interviste, e approfondire quanto e quando vogliamo. Socialmente e psicologicamente, invece, stiamo usando internet come luogo dell’accelerazione.
“E questo è il cuore del mio libro. Tra essere umano e tecnologia c’è una relazione romantica e turbolenta, come in molte altre relazioni struggenti. In ognuna di esse avviene qualcosa di magico: ciascun protagonista ha i suoi pregi e i suoi limiti, ma quando si incontrano si fondono e, insieme, devono decidere come scrivere la loro storia.
Quando ci si chiede “chissà come andrà a finire” probabilmente stiamo vivendo una bella storia, in cui tutto è ancora da scrivere. Non dobbiamo mai smettere di sognare nella nostra relazione con la tecnologia.
Se rinunciamo a dare forma alla nostra vita connessa, qualcun altro lo farà per noi. Qualcuno che dall’esterno ci dirà come vivere questa relazione.”
A salvarci, sarà l’errore.
Nell’ultimo capitolo della Storia sentimentale del telefono, leggiamo:
La tecnologia che potenzia l’uomo, ma non lo rende perfetto. Aumenta le sue
possibilità e in queste include sia le capacità nobili, sia le fragilità e le
inadeguatezze. Per questo la prospettiva più proficua credo possa essere quella
della correzione dell’errore, cioè il buon sano vecchio “sbagliando si impara” come
principio guida del nostro vivere smartphonico.
Ma il digitale è anche quel luogo in cui non sono ammessi errori. Possiamo cancellare i messaggi inviati nella chat di WhatsApp e trasformiamo uno sbaglio sui social in stigma sociale. Più ci digitalizziamo, più siamo connessi, più avremo a che fare con gli errori umani.
“In risposta alla cultura dell’efficienza idealistica abbiamo l’opportunità di creare la cultura dell’errore, per cominciare a guardarlo come elemento di progresso.
Per ritrovarci come essere erranti, come persone che sbagliano e che procedono per errore nella loro evoluzione.
L’ideale senza errori non è nella natura umana, e nemmeno in quella sociale.
Ecco il compito del digitale, portare con sé una grande cultura dell’errore, intesa come indulgenza nei confronti dell’errore altrui e dei nostri stessi errori, per non averne mai paura.
Per imparare a correggersi a vicenda. Per vivere questa epoca più consapevolmente.”
Cristina Soldano