Quante cose abbiamo letto (e scritto) in questi ultimi tempi sui cambiamenti e le trasformazioni che rapidamente ci hanno travolto nel nostro quotidiano, nelle relazioni, nel lavoro, nei consumi e nel tempo libero. Nuove parole, nuovi gesti, nuove dinamiche, nuove sensazioni legate alla dimensione digitale che si è insinuata nella nostra vita.
Evidentemente siamo dentro a un passaggio epocale che Paolo Iabichino, abile con le parole, ha voluto chiamare Ibridocene, come se fosse una nuova era geologica per raccontare un passaggio esistenziale, una promessa di progresso.
“#IBRIDOCENE” (Tracce Hoepli) è una lettura al tempo stesso densa e leggera. Densa perché Paolo Iabichino mette in ordine ragionato tutto ciò che sta accadendo attorno a noi da qualche anno (con il booster del Covid), mettendoci allo specchio, tra tesi ed esempi, ad ogni riga di questo saggio. Leggera perché ogni capitolo è intervallato da altre voci, altri punti di vista, più tematici che allargano il campo, ma anche da tappe di un viaggio musicale che gioca con i titoli e i concetti e che può diventare colonna sonora durante la lettura (qui la playlist su Spotify)
Questo invece è il primo capitolo che racconta le origini del titolo e del libro.
(MB)
BENVENUTA NUOVA ERA
Questo libro è stato scritto da un centinaio di dita intrecciate che, nel volgere di poche settimane, hanno varcato la soglia di un’epoca nuova. Questo libro è già stato letto da migliaia di persone in Rete, mentre le parole si rincorrevano sui monitor e i display si riempivano di collegamenti in streaming, durante una rassegna aperta da me e chiusa da una lectio di Luciano Floridi, una delle voci più autorevoli della filosofia contemporanea, ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford. In mezzo, gli interventi lucidi e appassionati di un economista, di un digital strategist un po’ rock, di una giornalista innamorata dell’empatia e della sociolinguista più pop d’Italia.
Ma soprattutto, questo libro sarebbe stato impossibile da concepire prima della pandemia e sicuramente non vuole offrirsi come un pacchiano manuale scritto con il “senno del poi”. Perché queste riflessioni hanno preso forma durante una serie di dialoghi “alla vigilia di una nuova era” voluti dal Punto Impresa Digitale della Camera di Commercio Milano Monza Brianza Lodi.
Insomma, niente a che vedere con le tematiche di un progetto formativo tradizionale, basato sulle competenze tecniche e sulla conoscenza degli strumenti più idonei per affrontare le sfide dell’Industria 4.0. No: questi incontri sono nati per accompagnare aziende, commercianti, botteghe storiche, startup e cittadinanza dentro i sentieri inediti di quello che all’inizio del ciclo abbiamo definito “tempo sospeso”, una definizione che arrivava direttamente dal frastuono mediatico di lockdown, regioni colorate e rincorse precipitose verso quella nuova normalità che avrebbe dovuto rasserenare gli animi dei nostri ospiti. E invece poi ci siamo accorti che prima del COVID-19 non c’era nulla di normale e che già da tempo si viveva come sospesi, tra un mondo fisico e uno virtuale, tra tecnologia e umanesimo, tra intelligenze artificiali ed esuberanze empatiche.
Gli ultimi anni sono stati quelli di un’età di mezzo che ha superato la fluidità del post-moderno, per affacciarsi su una Nuova Era difficile da decifrare e definire. La pandemia ha accelerato un guado che si era ormai reso urgente e necessario, ma non possiamo affidarci all’ormai famigerata nuova normalità come viatico. Questo nuovo tempo richiede uno sforzo inedito, quello della convivenza tra poli che fino a qualche tempo fa sembravano essere contrapposti. E per chi fa impresa l’impegno è ancora più marcato, perché le tradizionali istanze di profitto devono saper incontrare anche gli impegni civici e sociali, non solo quelli dettati dal mercato. Siamo di fronte a un bivio antropologico: da una parte il ritorno alle strade già battute, dall’altra un sentiero dove ci sono solo pochissime tracce, quelle di chi sta provando a mostrare una rotta inesplorata, ma ricca di nuove opportunità. Per questo i dialoghi della vigilia sono stati così seguiti, commentati, partecipati e hanno unito le riflessioni più lucide sui temi più attuali e rilevanti di questa contemporaneità tanto ibrida.
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The Killers | All These Things That I’ve Done
Abbiamo parlato di phygital dialogando con Nicolò Andreula, con Giulio Xhaët ci siamo occupati di contaminazioni e nuovi mindset organizzativi per affrontare le sfide del domani. Poi è stato il turno di Vera Gheno e di un’ispirata lezione sulla comunicazione, sul linguaggio e sugli atteggiamenti da tenere nelle relazioni social e sociali. Assunta Corbo ci ha coinvolto con i temi dell’empatia digitale, del giornalismo costruttivo e dell’importanza del nostro sguardo sul mondo. Infine, una vera e propria lectio magistralis, quella con cui il professor Floridi ha chiuso la rassegna parlando di marketing e mangrovie.
È stato esaltante aver avuto il privilegio di dialogare con queste personalità, affiancate dalla presenza rassicurante di una madrina d’eccezione: Marisandra Lizzi, una vera signora della Rete italiana, giornalista pubblicista che, dopo essersi occupata di marketing e formazione nei primi anni della sua carriera, ha fatto delle sue principali passioni – scrittura e Internet – la sua fortunata professione.
Il tutto accadeva nel cuore della città di Milano, dentro una delle sale più suggestive di Palazzo Giureconsulti che da 400 anni è al centro della vita sociale, commerciale e culturale della città. L’edificio fu inaugurato nel 1654 e da sempre ha rappresentato un punto di riferimento per la comunità degli affari, andando tra l’altro a ospitare la prima Borsa Valori di Milano nel 1809 e i primissimi uffici del Telegrafo nel 1878: come se fosse un luogo predestinato ad accogliere l’intersezione tra il mondo economico e quello della comunicazione. Ed ecco perché questo ciclo di incontri mi ha ispirato nello scrivere nuove pagine, in cui ho provato a mettere insieme alcune delle tensioni più importanti che sento manifestarsi intorno a un’epoca che non vuole saperne di continuare a comportarsi come il tempo che ci stiamo lasciando dietro le spalle.
Altrove mi sono trovato a interrogarmi sul nome da dare a questa Nuova Era1. In passato non era mai successo di trovarci a riflettere sulla dizione storiografica da assegnare a un determinato periodo storico, semplicemente perché mai prima d’ora ci era capitato di vivere così lentamente delle trasformazioni che modificano il senso stesso del nostro esistere.
Sono passati milioni di anni dall’evoluzione degli scimpanzé in esseri umani, decine di “nuove ere” che si sono succedute senza soluzione di continuità, eppure nessuna di queste è stata letta da dentro e in tempo reale dai suoi protagonisti. Dalla prima rivoluzione cognitiva, che viene fatta risalire a circa 70.000 fa, fino alla più recente rivoluzione industriale nessun passaggio epocale è stato registrato in diretta dagli esseri umani che l’hanno reso possibile.
Per ogni nuova era la consegna ai libri di storia è avvenuta sempre successivamente, grazie al lavoro di storici, sociologi, economisti, antropologi, archeologi, geografi (esistono ancora i geografi, vero?), etnologi… È avvenuta, cioè, attraverso lo sguardo retrospettivo e analitico di studiosi che hanno cercato di leggere e indagare il passato più remoto, a volte anche quello più prossimo, ma mai un presente già proiettato nel futuro. Almeno fino a oggi.
Eccoci invece alle prese con uno scrivere che coglie un sentire in costante diffusione. Molti studiosi si stanno interrogando con sempre maggior convinzione sui nuovi paradigmi che andrebbero a conformare questa Nuova Era per l’essere umano, ammesso e non concesso che sempre e solo di esseri umani si debba continuare a parlare per leggere il mondo con questa nuova lente.
I sociologi più attenti, coadiuvati dagli economisti più critici, hanno già scritto pagine di letteratura scientifica a proposito del passaggio dall’Antropocene al Capitalocene. Quest’ultima sarebbe la Nuova Era che, con la diffusione del capitalismo su scala globale, avrebbe finito per delineare nuove modalità di convivenza sociale e di relazione tra gli ecosistemi. La sua evoluzione non sarebbe più quindi governata dall’Homo Sapiens, ma dagli effetti di una trasformazione mondiale che ha finito per informare il complesso tessuto delle nostre dinamiche cognitive, migratorie e quindi esistenziali.
È anche questa una interpretazione a posteriori, forse un vezzo sociologico per stimolare nuove riflessioni sui nostri destini, ma indubbiamente una lettura di cui tener conto. Tanto quanto quella della filosofa Donna Haraway, che in un sol balzo arriva a consegnarci una Nuova Era dentro l’età dello Chthulucene, che poi è quella che stiamo vivendo e che sembra non avere nulla a che vedere con la pandemia da COVID-19.
Sì, perché “lo Chthulucene è proprio l’era nella quale viviamo e prende il nome dal ragno californiano Pimoa cthulhu, e non da quello del mostro di H.P. Lovecraft”, ci dice Haraway nel suo saggio. “Quell’acca in più rompe l’unità dell’essere singolare come un metaplasmo. Antropocene è una definizione chiusa in sé e incapace di rendere conto della complessità eterogenea del mondo. Al contrario, Chthulucene richiama le concatenazioni fra umano, altro da umano e humus, e la generatività rischiosa dei processi simpoietici. Lo Chthulucene è adesso, ma è anche uno spazio-tempo costantemente diffratto: tempo della responsabilità, non della speranza”.
Non vi fischiano le orecchie? Non vi sembra di sentir risuonare tutti gli eco civil-sostenibil-etical-politically correct degli ultimi mesi? Non pare chiaro anche a voi che siamo immersi in un nuovo flusso di coscienza evolutiva del pianeta, ma che a questa cosa ancora nessuno è riuscito a dare un nome così duro e romantico come Chthulucene?
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Liza Minnelli | Money Makes The World Go ’round
Ho ripreso le parole scritte dalla studiosa americana ben prima della pandemia, perché non voglio dare al COVID-19 la soddisfazione di averci traghettato nella nuova epoca che stiamo attraversando. C’è un rumore di fondo, ormai assordante, che rimbalza da instant book, fiumi di webinar e costosissime consulenze per portare questa Nuova Era dentro qualsiasi modello di business. E forse è proprio questo il vero virus.
Noi non riusciamo a pensare il nostro esistere se non per fatti concludenti legati alle logiche del profitto economico. Forse non si sbagliava chi affidava la sua lettura del mondo al Capitalocene, ma la nostra salvifica Nuova Era non può essere ridotta alle dinamiche stringenti dello scambio di merci, uomini, dati e intelligenze artificiali dentro le nuove terre emerse. Dobbiamo finalmente tener conto della “complessa eterogeneità del mondo”, del legame profondo, vitale e causale che esiste tra ogni essere vivente che abita il pianeta Terra. Ora: non è questo il momento di semplificare la vicenda della Nuova Era con una facile adesione alle tematiche di responsabilità ambientali, ecologiche, inclusive e umanitarie, perché temo che la questione sia molto più complessa di così.
Questa Nuova Era la stiamo scrivendo insieme, possiamo trovarle anche un nome più comodo di quello scelto dalla Haraway, ma ciò non ci aiuterà a viverla più consapevolmente. Lo sforzo adesso è quello di comprendere le concatenazioni vitali e virali del nostro agire. L’occasione è storica, non ci capiterà un’altra volta di testimoniare un’epoca le cui pagine siano state scritte dai suoi protagonisti, agite dalle sue comunità, progettate da uomini, donne, bambini, robot e intelligenze artificiali, in un unico grande disegno di Progresso (una splendida parola che abbiamo smesso di usare nella sua connotazione più felice). La pandemia è un effetto di questa Nuova Era, non diamole la soddisfazione di esserne la causa.
E a proposito di pandemia, quando mi sono trovato ad affrontare lo stesso tema per aprire il primo numero di una pubblicazione edita dal Gruppo BMW Italia, ho portato avanti la medesima riflessione, ma con una convinzione più sfacciata rispetto al lemma con cui battezzare il futuro che stiamo vivendo in questo incerto presente. E l’ispirazione mi è arrivata proprio da Floridi (che in quanto a neologismi sa sicuramente il fatto suo), a margine di quell’osservatorio privilegiato della rassegna L’età ibrida, in cui abbiamo ragionato sulle tensioni cognitive, sociali, culturali, economiche, organizzative, politiche, antropologiche, perfino linguistiche ed emozionali, con cui ci troveremo a fare i conti nel prossimo futuro.
Eravamo alla fine di un disgraziatissimo 2020 e quella Nuova Era superava la vigilia, palesandosi in tutta la sua urgenza. Da più parti sentivo ripetere come un deprimente tormentone che la pandemia aveva accelerato quei processi di trasformazione digitale che altrimenti ci avrebbero messo anni a fare capolino e mi avviliva constatare come qualsiasi tipo di riflessione fosse sempre guidata solo da tensioni “consulenziali”, mosse da istanze contabili che tralasciavano di analizzare i meno profittevoli contraccolpi di questo travolgimento. Non riuscivo a spiegarmi il preoccupante bisogno di “nuovo” che da più parti veniva reclamato come necessario.
Io credo che la pandemia ci abbia consegnato un varco salvifico: abbiamo scoperto che prima del COVID-19 non c’era granché di normale nel modo in cui portavamo avanti le nostre esistenze, del tutto votate all’iperconsumo.
E mentre davo forma a queste riflessioni saliva la consapevolezza di uno smarrimento epocale, come se l’Antropocene avesse di fatto fallito la sua missione. Le sue conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: potremmo andare incontro a una nuova colossale estinzione, ma noi continueremmo a ballare sul ponte di una nave spinta a grande velocità verso scogli ormai difficili da evitare. Con quale presunzione l’uomo ha voluto battezzare un’era geologica facendo riferimento soltanto al proprio agire? Non andava benissimo restare rispettosamente dentro l’Olocene che Wikipedia mi dice aver avuto il suo inizio circa 11.700 anni fa? Stando sempre a Wikipedia, infatti, pare che Antropocene sia un termine giovane, diffuso negli anni Ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer e scientificamente adottato nel 2000 per indicare l’epoca nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche.
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Cyndi Lauper | Time After Time
Temo che il vero virus stia nella rincorsa forsennata verso la nuova normalità che dovrebbe rientrare precipitosamente, il prima possibile per cortesia, dentro qualsiasi modello di business. Come se il nostro vivere non riuscisse a trovare altre ragioni se non quelle del profitto economico, dello sviluppo, della crescita a tutti i costi, mentre Gea sta urlando il suo disperato ultimo allarme, sciogliendo, bruciando, alluvionando, smottando, riscaldando, mareggiando, desertificando zone sempre più ampie della sua superficie.
Quello che sembra un suicidio annunciato è solo un assassinio, colposo e premeditato. C’è il massimo della pena e la condanna è senza appello. Peraltro gli ultimi anni ci hanno visto sguazzare dentro le nobili intenzioni del purpose a tutti i costi, con multinazionali intorno a suggestive roundtable cosmopolite che si presentano però ancora piene di spigoli e irte di malizie narrative.
Oggi dobbiamo accogliere con convinzione le interconnessioni vitali che legano l’uomo alla natura, l’intelligenza alla tecnologia, le città alle collettività, le imprese alle comunità, in un incontro di habitat che devono convergere dentro nuovi paradigmi, alcuni dei quali ancora sconosciuti. E io credo che questo tempo inedito lo si debba scrivere insieme: come accennato, lo sforzo da fare è quello di connettere tutte, ma proprio tutte, le possibili polarizzazioni divergenti, comprendendo le concatenazioni vitali – e virali – del nostro agire.
Se da mesi parliamo di un “tempo sospeso”, allora forse è giunta l’ora di camminare sul filo teso di questa nuova condizione. Nell’incontro con cui aprivo la rassegna dedicata all’Età Ibrida prendevo a prestito l’immagine del funambolo, ispirandomi alle lezioni creative di Philippe Petit e al suo trattato di qualche anno prima sul funambolismo. Perché nell’arte del camminamento sul filo c’è il rifiuto delle convenzioni, la sfida delle leggi precostituite, il rischio, lo studio e un solo possibile risultato: arrivare dall’altra parte, dato che tornare indietro significherebbe fallire nella propria mirabile impresa. Per questo ho chiesto a Francesca Fincato, che ha illustrato ad arte l’apertura di ogni episodio, di azzardare anche una copertina insolita per questa collana, con l’arroganza del curatore e la presunzione di segnare una traccia nuova. Il filo teso è quello che porta dal vecchio al nuovo, è il simbolo che ho scelto per spiegare questo “tempo sospeso” che oggi ci presenta il conto e chiede di essere chiamato per nome.
Benvenuto Ibridocene: nulla è come l’abbiamo conosciuto e tutto è ancora in trasformazione. Quel che sappiamo, però, è che dobbiamo abbracciare l’ibrido come una nuova condizione esistenziale, una nuova era geologica, l’epoca storiografica con cui i posteri si troveranno a fare i conti. Le prossime pagine siamo obbligati a scriverle insieme, e questa volta tutto dipende da noi. Soltanto da noi.