Diciamoci la verità. È piuttosto complicato oggi parlare di futuro o, quantomeno, farlo con lo stesso entusiasmo di qualche anno fa. Tutti noi siamo coscienti e consapevoli che le cose miglioreranno, che usciremmo da questo periodo e che ci lasceremo alle spalle la pandemia, tuttavia non c’è ancora lo stesso agio per parlare di piani e visioni come in passato. Torneremo a farlo molto presto, peraltro con una motivazione, un’energia in più e in uno scenario favorevole.
Oggi però è interessante osservare una tendenza che esiste da tempo ma che con il lockdown forzato, così come è successo per tante altri trend e dimensioni, si è accelerata rapidamente. Stiamo parlando di un nuovo sguardo verso il passato, di una sorta di recupero creativo e contemporaneo della memoria.
Niente a che vedere con la nostalgia e con la retromania che aveva caratterizzato gli ultimi dieci anni, coinvolgendo anche consumi culturali e intrattenimento: forse il libro più rappresentativo e consapevole fu quel “Retromania” (2011 – edito ora da Minimum Fax) del saggista e critico musicale Simon Reynolds che raccontava l’ossessione compulsiva per il passato prossimo, non solo nella musica, ma in tutte le arti, settori e discipline e che, secondo l’autore, costituiva il “paradigma creativo di hipsterlandia”. Il fenomeno della retromania ha certamente allargato la conoscenza delle cose del passato ma al tempo stesso, per chi scrive, ha altresì appiattito il discorso, privandolo di profondità e usando il passato solo per il ricordo istantaneo.
Peraltro il revival permanente non è stato un fenomeno necessariamente nuovo, come nota nel suo libro Reynolds. Dopo tutto, quasi mezzo secolo fa, Marshall McLuhan scriveva che «Una delle caratteristiche essenziali della perdita di identità [tipico dell’era elettronica] è la nostalgia, il revival dell’abbigliamento, delle danze, della musica e degli spettacoli». Secondo il teorico canadese «Viviamo grazie ai revival. Ci dicono chi sono, o per lo meno, chi eravamo».
La retromania ha in parte coinciso, specialmente nel campo delle arti, con la fine dell’originalità, cosa che peraltro non ha indispettito la critica, ma è stata accolta da una sostanziale indifferenza o, nel peggiore dei casi, da un sincero entusiasmo. La retromania non è stata però accettata da tutti. Ricordo che Jason Lanier nel suo saggio “Tu non sei un gadget” (2010 – Mondadori) fu molto duro con questa ossessione per il revival e per il proprio passato avesse provocata una “sonnolenza persistente”, risentendone la produzione delle arte creative, caratterizzate – secondo il rasta di Berkeley – da una piattezza senza precedenti.
Ma veniamo invece ad oggi. La bassa propensione a parlare del futuro e la totale apatia nei confronti del presente, ci ha portato ad avere un nuovo rapporto con il passato e con la memoria. Un rapporto più intenso, profondo, legato magari più al passato remoto che al passato prossimo. Risuonano in mente le parole un po’ sinistre di George Orwell in “1984” «Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato».
Ad esempio, il lavoro di archivista dall’immagine un po’ polverosa e marginale, negli ultimi anni è diventata centrale, specialmente nel mondo delle aziende, in particolar modo nel settore della moda e del design, ma in generale un po’ in tutti i settori. Il museo aziendale da luogo oscuro si è trasformato in uno dei pilastri per lo sviluppo economico, sociale e culturale, capace di condividere conoscenza e innovazione. Merito anche del lavoro dell’Associazione Italiana Archivi e Musei d’Impresa e di aziende specializzate che aiutano a organizzare in modo efficiente archivi e a progettare i musei d’impresa. Una delle più note si chiama Promemoria Group che si è specializzata nel recuperare e valorizzare la memoria storica di aziende, istituzioni culturali e collezioni private. Ecco, il passaggio sta proprio nel considerare non solo la conservazione, ma la valorizzazione.
Il fondatore di questa realtà Andrea Montorio (nonché ideatore di Archivissima, un festival sulla spettacolarizzazione degli archivi) ha di recente fatto uscire per l’editore Add un libro dal titolo, guarda caso, “Promemoria” (Add editore), ma che in realtà parla di archivio come pratica privata, una sorta di diario intimo che aggancia i ricordi scritti a oggetti, immagini, reperti di vita personale. Si tratta di un dialogo ideale con il figlio Louis di otto anni che, con la scusa di un trasloco, costruisce un archivio personale dei propri ricordi per la propria famiglia. Archiviare non significa prendere tutti gli oggetti e classificarli, bensì fare una selezione per attribuire loro una pluralità di significati a seconda della rete di relazione: da questo punto di vista Montorio lega i reperti ai ricordi, trasformandoli «da oggetti d’uso a memoria, da memoria a emozione»

Promemoria
Come creare l’archivio dei propri ricordi
Andrea Montorio
192 pagine – 19 euro – Add editore
Insomma, per l’autore l’archivio personale è uno strumento che permette di trasmettere la nostra identità, e lo fa attraverso le memorie emotive, che significa quindi attribuire un significato e un ricordo a quelle fotografie, magliette, messaggi, dvd. Sia per gli archivi personali che per quelli aziendali l’obiettivo non deve essere la propria autocelebrazione, ma è necessario uno scopo ben preciso per cucire insieme tratti del passato attraverso oggetti e fatti del passato per trarre ispirazione nel proseguire il cammino e quindi affrontare il futuro con più sicurezza.
Questa mania dell’archivismo non riguarda solo le aziende o i capifamiglia, ma ha di recente coinvolto anche le giovani generazioni. Ci viene in aiuto Nextatlas, la piattaforma di data intelligence che utilizza l’AI per il monitoraggio predittivo delle tendenze e degli stili di vita emergenti, che ha individuato una tendenza legato al passato sempre più accessibile e in particolare al trend chiamato Romanticized Erudiction e di come la pandemia abbia avvicinato il pubblico più giovane alla cultura erudita di un tempo, dall’arte classica alla musica alla letteratura. Negli ultimi mesi Dark Academia e Cottagecore sono emerse come importanti sottoculture incentrate sulla romanticizzazione del mondo accademico, sottolineando la passione d’antan delle persone per la letteratura, l’arte e l’istruzione; su Spotify c’è stato un sensibile aumento degli ascolti del numero di stream globali per compositori come Bach e Mozart; i musei classici come le Gallerie degli Uffizi di Firenze sono diventati di recente sempre più popolari su piattaforme di social media come TikTok con i loro meme e i post ironici.
Il passato però non è solo una questione di ricordi emotivi, consumi culturali e conoscenze, ma è anche la ricerca un sistema di valori profondi, che magari abbiamo lasciato andare un po’ troppo frettolosamente, ma che sono fondamentali per affrontare il futuro e le innovazioni.
Da un paio di mesi è uscito questo saggio scritto dal pedagogista e filosofo Duccio Demetrio dal titolo “All’antica – Una maniera di esistere” (Raffaello Cortina Editore) che sulle prime sembrerebbe un libro un po’ fuori dal tempo, ma si tratta di una lettura superficiale.
L’antico o l’essere all’antica non rappresenta il vecchio e l’antiquato ma, al contrario, è tutto ciò che non può essere superato: è uno stato d’animo, una maniera d’esistere, una percezione emotiva necessaria per non rimanere invischiato nella retorica del “carpe diem” e in quest’adesso effimero e insipido.

All’antica
Una maniera di esistere
Duccio Demetrio
316 pagine – 19 euro – Raffaello Cortina Editore
Duccio Demetrio ci offre in questo libro tante interpretazioni del termine “all’antica” che ovviamente comprendono anche quell’accezione negativa , per apostrofare atteggiamenti o comportamenti dell’altro non conformi alle consuetudini del momento, quindi anche abbigliamento, modi di vivere e gusti che non si mostrerebbero al passo coi tempi.
Ma a noi, e anche all’autore, piace invece approfondire quel lato invece più costruttivo e positivo che riguarda in pratica avere un buon rapporto consapevole con il passato e le origini: questo non significa essere conservatori o attaccati a facili nostalgismi (la retromania di cui sopra) ma, come scrive Demetrio, può anche essere una prassi rivoluzionaria, in quanto toglie l’uomo da un presente spesso impoverito e intollerabile.
Tornare all’insegnamento dell’antico quindi significa riscoprire la poesia naturale che c’è nelle cose nascoste, scartate, dimenticate da un presente che è sempre più accelerato, ma che accendono la meraviglia. Per questo crediamo che la lettura di questo libro possa essere interessante anche per chi si occupa di comunicazione all’interno delle aziende e delle agenzie: l’idea è quella di accogliere uno sguardo altro, profondo e gentile che permetta un’empatia e una risonanza, che oggi rappresentano valori sempre più richiesti e ascoltati.
Ecco quindi che grazie a questi due libri è quindi possibili rivolgersi a quel passato che permetta di comprendere la pienezza della durata e quella continuità vitale che riesce a dare un senso e un significato a questo nostro tempo impoverito. E, perché no, può davvero essere un elemento fondamentale per fare innovazione.
Michele Boroni